Gli antichi saggi d’Islanda
Salgo sulla mia 4×4, una Dacia Duster bianca a noleggio. Sono pronto per ripartire. In Islanda, per attraversare particolari zone, le più selvagge, è obbligatorio l’uso di un fuoristrada a quattro ruote motrici. Certo, con la mia compagna di avventure, di media stazza, non avrei in ogni caso potuto percorrere le strade più impervie, nonché guadare i torrenti più pericolosi che attraversano le sconfinate distese islandesi. Ma per questo viaggio era più che sufficiente. Mi volto un istante per controllare se sia tutto a posto: ho appena smontato la tenda e caricato tutto in auto. Meglio sempre fare una breve verifica; l’ultima cosa che voglio mi accada è dimenticare qualche cosa qui, fra queste montagne scolpite dai ghiacciai e isolate dalla civiltà.
Il primo pensiero, osservando l’interno dell’auto, è quello di avere l’impressione di vivere da giorni in un campo base mobile. Attrezzature, bagagli, equipaggiamento fotografico e generi alimentari occupano tutta la parte posteriore del fuoristrada. Prese elettriche di ogni tipo sono invece connesse alla zona del cruscotto, con l’obiettivo di ricaricare ogni giorno le batterie delle varie componenti elettroniche e digitali. Dire che non è tutto in ordine è un eufemismo. Ma in queste settimane di giugno, dove la luce perpetua dell’estate islandese offre l’idea che le giornate non finiscano mai, la cura dell’ordine è secondaria, scavalcata dall’incessante desiderio di esplorazione.
Un passo indietro
Canyon e strutture di origine vulcanica si materializzano risalendo le pendici del vulcano Katla. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Questa mattina mi ero svegliato con un programma ben preciso: l’intenzione di raggiungere il ghiacciaio Kötlujökull, una vasta lingua di ghiaccio che discende dal più esteso Mýrdalsjökull. Quest’ultimo gigante bianco tiene a bada come può, da ormai oltre un secolo, il grande vulcano Katla, che giace dormiente sotto il ghiacciaio. Ma dormiente per quanto? Ogni qualvolta mi fermi dinanzi a queste geometrie di colore nero generate dalle sue ancestrali eruzioni, e le osservi nel silenzio di questi paesaggi, me lo chiedo. Non me lo domando solamente io, ma anche i vulcanologi. Secondo l’analisi storica della sua attività, infatti, il vulcano avrebbe dovuto eruttare già da tempo. Erutta in media almeno una volta ogni secolo da oltre mille anni. L’ultima eruzione, estremamente violenta, ha avuto luogo nel 1918, generando non pochi disagi ai villaggi costieri, non poi così distanti. Stare qui, in questo momento, abbracciato a una terra primordiale connessa direttamente al cuore del pianeta, mi genera emozioni di sublime purezza. La mia meta, tuttavia, è alla fine rimasta impressa solo nella mia immaginazione.
La sveglia, stamattina, qui al freddo anche in estate, si è rivelata più umida dei giorni precedenti. Malgrado una serata dipinta in cielo da colori nitidi e promettenti, la giornata è iniziata nel segno della nebbia. Chi viene su quest’isola ai confini del mondo ne è al corrente: le condizioni climatiche generano un meteo estremamente mutevole. Soprattutto nella zona meridionale, dove mi trovo, notevolmente influenzata dalla corrente oceanica del Golfo. Il bollettino del meteo islandese non ha tradito le previsioni: nuvoloso e pioggia.
In ogni caso, ho tentato lo stesso di avanzare il più possibile. Impostato il GPS, mi sono avviato, risalendo i dolci e verdeggianti pendii che si affacciano su questi oscuri canyon a strapiombo, sorretti da serie incalcolabili di millenarie colonne basaltiche. Il percorso era lungo e solitario, umido e silenzioso. Di tanto in tanto mi sono imbattuto in sculture laviche di immane bellezza che, cogliendomi di sorpresa, si ergevano isolate, severe e possenti, come guardie a protezione della montagna. La parte alta del vulcano, invece, ricoperta di ghiaccio, è rimasta occulta, immersa nelle nubi. Dal GPS, però, con l’avanzare, avevo cominciato a intuire che per raggiungere la meta, in queste condizioni, ci sarebbe voluto molto più tempo del previsto. Inoltre, le nuvole cominciavano ad abbassarsi, e sono stato costretto ben presto ad affrontare i primi tratti nella nebbia, molto fitta. Il sentiero, tuttavia, era ben visibile sotto ai miei piedi e, sebbene continuare, forse, sarebbe potuto risultare inutile in queste condizioni meteorologiche, l’istinto mi ha offerto ancora la fiducia necessaria per proseguire oltre. Non per molto, però.
Le nuvole si abbassano creando atmosfere mistiche sui canyon, plasmati nel corso dei millenni da ghiaccio e acqua. Islanda. Marco Franchi, 2019.
In seguito lo scenario è mutato improvvisamente, lasciandomi ben poche speranze di ammirare lo spettacolo offerto da questi miei primi e vicini ghiacciai islandesi. Distese di neve intonsa, a perdita d’occhio, hanno cominciato a palesarsi dinanzi a me. Niente di trascendentale in buone condizioni meteorologiche, ma non in questo ambiente. Non con zero visibilità, esplorando territori sconosciuti su terreni impervi, dove cambi di pendenza e versanti esposti si possono manifestare senza preavviso in un paesaggio totalmente bianco e bidimensionale. Al dilemma si è aggiunta la pioggia, che ha cominciato, fitta e leggera, a battere imperterrita sul mio guscio in Gore – Tex impermeabile. Una sentenza: no, non era il caso di proseguire, neppure con il GPS, benché in lontananza avvertissi chiaro il suono dell’acqua, presagio di fusione dei nevai, o del ghiaccio.
Pertanto, non restava che tornare indietro, immerso in ogni modo nelle emozioni generate da una terra che, anche in queste condizioni meteorologiche, era in grado di suscitare in me un solare e sconfinato stupore. Nemmeno la pioggia e la mancata conquista della meta potevano impedirmi di essere felice.
Il viaggio continua
Tornato al punto di partenza, con questa pioggia non potevo certo mettermi a sistemare l’auto con attenzione. Ho dovuto caricare tutto l’equipaggiamento velocemente. Pazienza, è necessario adattarsi, come sempre. Una volta pronto, messa in moto l’auto e acceso il riscaldamento per acclimatarmi quel tanto che basta, si può partire. Il primo tratto è suggestivo e da fare con attenzione: mi attende un’ora di tragitto sterrato attraverso un paesaggio primordiale prima di raggiungere la strada principale islandese, la Hringvegur, che collega tutti i più rilevanti centri abitati situati nelle aree costiere dell’isola. Il mio obiettivo è muovermi verso la costa sud est, e il bollettino meteorologico islandese mi offre le giuste speranze. Il clima, in quest’isola, genera condizioni meteorologiche così dinamiche che è possibile, in poche decine di chilometri, ritrovarsi dal Sole alla pioggia, dal vento intenso alla neve o viceversa, e, per non farsi mancare nulla, anche immersi nelle tempeste di sabbia. È quello che mi auguro, proprio ciò che lo scenario del bollettino prevede: in questo caso il bel tempo.
Non si finisce mai di sognare e immaginare i nuovi obiettivi. Il prossimo? Il Parco nazionale Skaftafell. Nuovi scenari, nuove avventure, nuove visioni e solo sorprese. Nel mezzo, però, circa 150 chilometri di strada da percorrere. L’Islanda è una terra che non fa rima con monotonia. I paesaggi si susseguono diversi, in un compendio unico al mondo ma estremamente compatto, fatto di colori, geometrie e panorami selvaggi che riportano a un mondo antico, primitivo, dove l’uomo è costretto – una volta tanto – ad assecondare, senza possibilità di appello, le dinamiche della Natura. È molto facile distrarsi, qui, mentre si viaggia in auto: un viaggio nel viaggio. Non oggi, però, con queste condizioni meteorologiche. La visibilità ridotta costringe a scrutare solo le immediate vicinanze, che però, anche in questo caso, offrono nuovi dettagli, e nuove scoperte.
La strada grigia, una linea retta che punta dritta davanti a me, si perde fra la nebbia, all’orizzonte. Lo scenario, intorno, si divide invece in due colori: bianco sopra; blu, violaceo sotto. Una trama costante, quest’ultima, che scorre veloce a destra e a sinistra dell’auto. Un mare sconfinato di lupini Nootka. La bellezza di questo velluto sgargiante, seppur monocromatico, mi colpisce: ma quanti sono? Chilometri di superficie pianeggiante sono ricoperti da questi fiori ammalianti, fino alla base dei rilievi. Ammalianti, ma infestanti. Originari del continente nordamericano, furono introdotti in grandi quantità in Islanda dalla seconda metà del secolo scorso. Il loro fine era quello di ridurre l’erosione del suolo dell’isola, di recente origine vulcanica, e renderlo maggiormente fertile, favorendo una lenta crescita di nuova vegetazione, ormai quasi totalmente scomparsa su tutto il territorio. Tuttavia, la pianta, molto resistente e adatta al clima islandese, ha finito per colonizzare e occupare intere e sconfinate porzioni dell’isola, diventando, oggi, un fattore di preoccupazione.
Distese di lupini Nootka rivestono intere porzioni del territorio islandese. Si perdono all’orizzonte. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Non accade ovunque, però. Nessuna monotonia. Infatti, dopo alcune decine di chilometri, il paesaggio cambia. Comincia un nuovo dominio, quello del colore verde. Le eruzioni vulcaniche, nel corso degli ultimi millenni hanno plasmato vaste aree dell’isola, lasciando ancor oggi, immobili ed evidenti come fossero appena raffreddati, gli immensi campi di lava prodotta dagli eventi eruttivi. Laddove la furia del pianeta ha sentenziato la sua forza, la vita, con rispetto e pazienza, non ha esitato a prendersi i suoi spazi, una volta placatosi quell’immane furore. Muschi colorati di un vistoso verde rivestono interi campi di lava per lunghi tratti, creando una superficie che tutto sembra, tranne che opera dell’ira di antichi vulcani.
Non c’è tempo per annoiarsi; non c’è spazio per distrarsi, ma solo per innamorarsi. Neppure con la pioggia si resta delusi, che continua a battere senza tregua sul parabrezza dell’auto. Ogni tanto qualche auto mi sorpassa, veloce. Queste strade, molto scorrevoli, dove il traffico è ridotto, invogliano a ridurre il tempo e macinare chilometri a gran velocità. Ma all’improvviso sono sorpreso da un nuovo, repentino, cambio di scenario: appare un deserto. Sì, pare proprio uno sterminato deserto, grigio e color sabbia. Ma è diverso da ciò che può sembrare: canali di varia larghezza, intrecciati, si avvicendano uno dopo l’altro, carichi di acqua cupa e tumultuosa. Compaiono in lontananza, dalla nebbia, e pur non riuscendo a individuare il loro punto di origine, non posso sbagliare: giungono dalle montagne, dai ghiacciai. Mi trovo ad attraversare il più esteso sandur islandese, nonché del mondo per tipologia, Skeiðarársandur.
La strada, sottile, fra ponti e tratti nei quali sfiora l’acqua, taglia in due questa gigantesca pianura, originatasi in decine di migliaia di anni a causa del deposito di sedimenti trasportati verso l’oceano dalla fusione dei ghiacciai. Solo negli ultimi 10000 anni, in questa superficie, si sono accumulati dai 100 ai 250 metri di spessore di sedimenti. Un fenomeno spettacolare che, immerso in questa atmosfera plumbea e minacciosa mi suscita, a momenti, emozioni angoscianti. Percepisco, ancora una volta, la grande e implacabile energia della Natura. Mi fermo qualche istante a bordo strada, in una piccola area di sosta, per assaporare con maggior consapevolezza questa realtà vissuta per la prima volta. Resto in silenzio. Il suono dell’acqua che scorre nei torrenti mi trasmette il dinamismo di questo piccolo angolo di mondo che non esita a manifestare con fermezza il perpetuo flusso della Natura. Sono emozionato.
Mancano ancora una cinquantina di chilometri all’arrivo. La meta è Svínafell, un piccolo gruppo di abitazioni alla base di alcuni dei ghiacciai meridionali di sbocco che scendono, incontenibili, dall’immenso Vatnajökull, il grande gigante bianco d’Islanda. Vatnajökull è la più estesa cappa di ghiaccio dell’Isola e del continente europeo per volume. Qui, ad attendermi, ci sarà il campeggio che per questa notte ospiterà me e la mia tenda. Mentre macino chilometri con l’auto, ecco la conferma che attendevo, e la speranza che diventa realtà: la visibilità che aumenta, la luce che si fa più penetrante e la pioggia che sembra stia per smettere di cadere. Si apre il sipario. L’euforia mi travolge alla meravigliosa visione di quelle brillanti ed enormi fasce bianche che avvolgono le montagne in lontananza. I grandi ghiacciai islandesi si palesano in tutta la loro bellezza, per la prima volta, ai miei occhi sorridenti.
Non c'è tempo per fermarsi
La luce costante del giugno islandese è una manna dal cielo per chi non vuol mai smettere di esplorare, e sognare a occhi aperti: il tempo ti illude di poter fare qualsiasi cosa. Perciò, ne approfitto, e una volta montata la tenda, prima di prepararmi la cena, mi voglio regalare un desiderio. Poco lontano dal mio campeggio, alte e ampie morene nascondono la fronte di un ghiacciaio che più in quota, fra crepacci e seracchi, si perde fra le nuvole, lasciandomi solo immaginare il suo gelido fascino. Si tratta del ghiacciaio Svínafellsjökull, che precipita dagli oltre duemila metri del vulcano che lo sovrasta, Öræfajökull, il più alto dell’intera Islanda, anch’esso ricoperto dai ghiacci.
Il ghiacciaio Svínafellsjökull termina la sua discesa in un piccolo lago proglaciale costellato di iceberg di varie dimensioni. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Per raggiungere il ghiacciaio è necessario percorrere una strada sterrata, a tratti sconnessa, che si fa largo fra più livelli di morene frontali, a testimonianza del suo repentino arretramento negli ultimi decenni. Si avanza fin dove possibile: ci pensa il lago proglaciale che si presenta all’improvviso, davanti a me, ad arrestare l’auto. Formatosi in seguito alla rapida fusione del ghiaccio, si trova proprio al di sotto del versante occidentale del ghiacciaio. L’acqua, immobile e torbida, ospita diversi piccoli iceberg, i cui colori variano dal bianco al vivido azzurro, fino al nero delle polveri vulcaniche che il ghiacciaio ha inglobato nel tempo. Alla base della maggior parte dei ghiacciai di sbocco dal Vatnajökull, nell’ultimo secolo, a causa del riscaldamento globale, si sono formati ampi laghi proglaciali.
Finalmente vivo il mio primo contatto con i saggi d’Islanda, che si ergono padroni di questa terra al pari dei vulcani. La fronte del ghiacciaio si sviluppa per quasi un chilometro, e osservo come in un punto, a distanza, il ghiaccio si trovi proprio a contatto con la morena, quindi raggiungibile facilmente. Percorro la cresta della morena prestando molta attenzione; il terreno, composto da sedimenti di mille colori, è a tratti instabile. Nel tragitto mi fermo a osservare questa massa gigantesca e statica, a pochi metri, ma solo apparentemente immobile. Infatti, qualche istante successivo, un boato in lontananza squarcia il silenzio. Senza dubbio si è verificato il crollo di un seracco. Le vibrazioni mi attraversano, facendomi percepire un brivido ricco di intensità che si riverbera nella rinnovata quiete post crollo.
Fronte del ghiacciaio Svínafellsjökull. Enormi blocchi di ghiaccio si fanno largo nel terreno ricco di sedimenti variopinti. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Superata la sommità della morena, inizio a scendere. A sorpresa, però, sono accolto da un secondo lago proglaciale, in precedenza celato dalle alte dune create dal movimento della massa glaciale. Ciò che mi colpisce, in ogni caso, è altro: l’intero paesaggio è dipinto di blu e viola, ancora una volta. Un letto di lupini ha colonizzato totalmente quest’area desertica, donando colori e sfumature inaspettate a un panorama aspro e selvaggio.
Tuttavia, ho un solo desiderio da voler realizzare qui e ora, entrare in connessione con questo saggio bianco. Scendo dalla morena e, finalmente, sono davanti a enormi blocchi di ghiaccio: si palesa l’archivio storico delle ere islandesi. Ho i ramponi a portata di mano, ma non sento il bisogno di avventurarmi oltre, per oggi; ho solo la volontà di sfiorare il ghiaccio e percepire il valore di questo straordinario spettacolo della Natura.
Sfumature rossastre colorano la parte frontale del ghiacciaio a contatto con la morena. Le sabbie di origine vulcanica donano al paesaggio glaciale cromie ricche di fascino. Mi avvicino al ghiaccio ed entro in contatto con esso. Toccare quella gelida superficie mi lega al passato remoto sigillato fra quei cristalli. L’emozione è infinita e, proprio in quel momento, dalla sommità del blocco di ghiaccio che sto toccando scivola, in modo quasi impercettibile, della sabbia, che si deposita alla base della morena. Un solo pensiero si manifesta nella mia mente: sono testimone dell’eterno e progressivo dinamismo della Natura. Il ghiacciaio vive, si muove.
Sono entusiasta. E mentre mi avvio per ritornare all’auto, le nuvole cominciano ad alzarsi, assottigliando lo spessore che le separa dal cielo terso. I raggi di un Sole in graduale discesa verso l’orizzonte riescono a far quasi breccia, colorando di rosa e rosso lo scenario che incornicia il ghiaccio. Ancora una volta, come infinite altre, in questo silenzio selvaggio, me lo ripeto nuovamente: sono proprio dove devo essere.
Le nubi si assottigliano e il Sole artico comincia la sua lenta discesa verso l’orizzonte. Il monte Hafrafell, che separa i ghiacciai Svínafellsjökull e Skaftafellsjökull, si riflette in uno specchio d’acqua fra il ghiacciaio e la sua morena frontale. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Posso tornare al campeggio, dunque, e preparami alla giornata decisiva, quella di domani. Le notti Islandesi, sino a questo giorno, sono sempre state molto rilassanti. L’estate, qui, non è paragonabile a quella mediterranea. Le temperature minime sfiorano lo zero nelle poche ore senza l’irraggiamento del Sole, ed è consigliabile, inoltre, utilizzare la mascherina per gli occhi nelle ore di sonno. Tuttavia, ho qui trovato un’armonia che raramente, nelle mie notti solitarie, trascorse in altri luoghi selvaggi, ho provato.
Al cospetto del gigante bianco
La sveglia al mattino non serve. La luce del Sole è già intensa alle prime ore del giorno. In aggiunta, le numerose specie di avifauna che abitano l’isola non esitano a far notare la loro presenza, emettendo i loro peculiari richiami mentre sorvolano il campeggio. Insomma, anche volendo, non è semplice restare immersi nel sonno, qui, la mattina. Proprio il sole che scalda l’interno della tenda, rendendo saturo il verde del soffitto di tela impermeabile, è la tanto attesa conferma che cercavo: il meteo è ottimo, e non vedo l’ora di vivere l’avventura di oggi.
Sì, è una giornata attesa questa. Sicuramente la più importante fra quelle vissute nel sud dell’Islanda sino a ora. Tenterò di risalire i versanti dei rilievi meridionali del Parco nazionale Skaftafell, con l’obiettivo di avvicinarmi il più possibile alle colossali seraccate che come bastioni di una fortezza circondano la cappa di ghiaccio del Vatnajökull. Desidero ammirare da vicino questo fenomeno della Natura fuori scala, oltre la dimensione dell’umano. Ma le incognite sono molte: dal timore di trovare neve sui pendii più ripidi non esposti al Sole, al meteo, che durante il giorno dovrebbe peggiorare, fino a portare la pioggia, in serata.
Il percorso è lungo. Niente di diverso, tecnicamente, da una normale salita sulle Alpi, ma non posso certo illudermi. Lo scenario è totalmente differente, e le condizioni ambientali, con annesse variabili, possono sorprendermi in ogni istante.
La prima parte dell’itinerario è immersa in ciò che resta delle antiche foreste che in passato, anteriormente all’insediamento delle prime comunità di coloni sull’isola, decoravano gran parte del territorio. Sì, sono scomparse, e la causa è stata proprio la presenza dell’essere umano. Le popolazioni islandesi, per secoli, hanno utilizzato il legname ricavato dalle foreste per gli usi più variegati, dalla costruzione delle case al riscaldamento, fino a spogliare l’intera isola del suo abito verde lussureggiante. Il ripristino di quelle originarie sembianze, oggi ricominciato con opere di rimboschimento e messa in stabilità dei terreni, è però lento e arduo in una terra che presenta caratteristiche selvagge, plasmata dai vulcani e scossa da un clima rigido, a tratti inospitale.
Ghiaccio si traduce in acqua, tanta acqua. In Islanda non manca: tutti i territori limitrofi alle vaste masse glaciali sono attraversati da una rete capillare di corsi d’acqua. Un ambiente vivo e in evoluzione che segue il flusso delle stagioni, i ritmi serrati del clima e le repentine variazioni delle condizioni meteorologiche; una Natura selvaggia costantemente in mutamento. Avvicinandosi ai ghiacciai, pertanto, compaiono laghi proglaciali e, sui versanti più scoscesi dei rilievi, come sui vertiginosi salti rocciosi, splendide cascate che hanno il potere di ipnotizzare i viandanti, costringendoli ad arrestare il loro cammino. Proprio quello che mi succede. Sono rapito, tenuto in ostaggio da quella sete di bellezza che tutti i miei sensi bramano senza sosta. Immerso in questo mondo dalle sembianze primordiali, così splendidamente distante dalle dinamiche artificiali costruite a misura apparente di essere umano, mi sento libero, davvero a casa.
Il gruppo montuoso Skaftafellsfjöll nasconde solo in parte l’immensa lingua di ghiaccio di Skeiðarárjökull. Il grande ghiacciaio, nel corso dei millenni, ha formato Skeiðarársandur, la pianura alluvionale che si estende per decine di chilometri dalla fronte del ghiacciaio fino alla costa dell’oceano Atlantico. In lontananza, sulla superficie del sandur, si notano le vaste nubi di sabbia alzate dal vento. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Mentre avanzo, salendo senza rendermene conto verso quelle muraglie bianche che appaiono ancora distanti, la mia immaginazione si fonde con la realtà. La vegetazione, proseguendo nel lungo cammino, cambia costantemente. Il terreno, roccioso e dai mille colori, si appropria del paesaggio, conservando gelosamente i suoi domini: solo l’erba, ancora ingiallita in seguito al disgelo della neve, tenta di colonizzare le aree più accessibili. Ma attenzione, la prima vera sorpresa è imminente. Il versante occidentale della montagna mi stupisce all’improvviso, spalancandomi le porte della meraviglia. La terra finisce e, da un pulpito per privilegiati, in equilibrio sul filo di un salto roccioso da capogiro, mi trovo dinanzi all’essenza islandese. Valli selvagge pervase dalle trame intrecciate dei torrenti d’acqua, lingue glaciali, montagne variopinte e infiniti deserti di sedimenti confondono i miei sensi, alterando le mie emozioni. Potrei restare qui per sempre.
Sotto di me Morsádalur, valle primitiva plasmata nei millenni dalla lingua di ghiaccio al suo interno, Morsárjökull. Seguo la valle con lo sguardo, dall’inizio, dove un ampio lago proglaciale anticipa la fronte di un ghiacciaio sofferente, in costante arretramento a causa del riscaldamento globale. Una ritirata veloce, quella di Morsárjökull; in Islanda, gli effetti del cambiamento climatico sono stati devastanti nell’ultimo secolo. I miei occhi, infatti, proseguono seguendo un ghiacciaio che pare indietreggiare ferito e in angoscia, con l’obiettivo di tornare presto nell’abbraccio protettivo del gigante bianco, il Vatnajökull, dal quale si origina. Ma proprio a questo punto un brivido mi attraversa; si palesa ciò che desideravo da giorni. Emozioni e adrenalina: il gigante è davanti a me, finalmente. Vatnajökull, alchimista di emozioni. La sua presenza genera in me dinamiche emotive e sensoriali che dominano la razionalità. Pura connessione istintiva con questo antico elemento terrestre, che da questa prospettiva ha raccolto la storia di decine di migliaia di anni di vita del pianeta.
In lontananza, sopra le montagne, un’immensa cupola accecante, liscia e perfetta, si estende in modo indefinito fino a confondersi con le nuvole. Molto spesse e di un bianco brillante, nubi minacciose si sono sviluppate, nel frattempo, sopra la cappa di ghiaccio. Non ci sono crepacci né seracchi nel plateau glaciale, almeno fino al limite dei versanti meridionali delle montagne, che qui si mostrano divorati dall’erosione millenaria subita dai ghiacciai vallivi in discesa verso l’oceano. Ciò che però non smette di farmi contemplare, rispettoso, questo fenomeno estremo della Natura, è l’imponente seraccata che sottomette l’intera parete rocciosa a monte della valle Morsádalur. Baluardi di ghiaccio spesso fra i 50 e i 100 metri restano in bilico sul precipizio che dà inizio alla valle. Proprio dai crolli di questi colossali seracchi si alimenta il Morsárjökull sottostante. Cedimenti che non si fanno attendere e, quando avvengono, riecheggiano nell’intera valle, lasciandomi senza parole.
Morsárdalur. La valle glaciale si estende per oltre dieci chilometri ed è solcata, nella sua parte a monte, dal ghiacciao Morsárjökull. Grandi bastionate rocciose, al termine della valle, si ergono verso l’alto sorreggendo le possenti seraccate della vasta cappa di ghiaccio del Vatnajökull. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Per l’ennesima volta penso a quanto non vorrei andarmene da qui. A ogni secondo si manifesta un nuovo dettaglio; a ogni movimento sono consapevole di una nuova percezione sensoriale. Infatti, voltandomi, mi oriento a sud, verso il mare, ma non lo vedo. Sotto alla montagna si estende per decine di chilometri il deserto di sedimenti glaciali, Skeiðarársandur, e all’orizzonte dovrei intravedere l’oceano Atlantico. Niente da fare. Ciò che limita la visuale sono vaste nuvole di polvere alzate dal vento. In Islanda non sono rare le tempeste di sabbia. I venti possono essere molto tesi in certe giornate, e se qui, per ora protetto dalle pareti non ne avverto la potenza, quelle nubi di sabbia sul sandur, generate dalle raffiche, testimoniano invece un’elevata intensità del vento su tutta la pianura alluvionale. Comprendo, quindi, cosa mi attende una volta cambiato versante della montagna.
L’avanzata infatti non è finita: l’obiettivo è raggiungere e percorrere parte della sottile cresta rocciosa che porta proprio verso i seracchi del gigante bianco. Ma la via di salita, a tratti esposta, si trova proprio dal versante sferzato dai venti provenienti da nord, dal cuore del ghiacciaio. Man mano che cambio lato della montagna il vento inizia a farsi sentire sempre più forte, e ora nemmeno il Sole, intenso, riesce a scaldarmi dal freddo percepito. Proseguendo inizio a domandarmi se sia il caso di rischiare. La risposta mi giunge all’improvviso, quando, esposto sul ciglio orientale della montagna, una raffica violentissima rischia di gettarmi a terra. In questi momenti, quando vulnerabile mi trovo al cospetto dell’incertezza, le emozioni si chiudono a riccio, lasciando esposti, in difesa dell’istinto di conservazione, aculei di pura razionalità. La gestione delle emozioni è fondamentale nei momenti di difficoltà, in questi ambienti sovradimensionati rispetto alle possibilità umane.
Le emozioni, tuttavia, non tardano a manifestarsi nuovamente quando alla vista mi compare il gigantesco Skaftafellsjökull. Sembra scendere più dolcemente di quanto appaia, dalla cappa di ghiaccio del gigante, se osservato da qui. In verità, enormi seracchi ed estesi crepacci lo costellano per i quasi 15 chilometri che lo vedono sagomare, sinuosamente, l’intera vallata sottostante. Termina molto più a valle, in un altro lago proglaciale formatosi fra le vecchie morene frontali del ghiacciaio, a ennesima riprova di un suo lento e inesorabile declino.
Trame sulla superficie del ghiacciaio Skaftafellsjökull. La cenere vulcanica viene inglobata e trasportata dal ghiaccio, che fratturandosi crea vistosi tratteggi colorati di nero sulla sua superficie bianca. Islanda. Marco Franchi, 2019.
Il pendio è molto esposto, e precipita a picco proprio sulla massa crepacciata del ghiacciaio. Appena mi affaccio su vuoto, cercando di fronteggiare quel vento che pare a tratti darmi tregua, la Natura mi rimette subito al mio posto. Le raffiche, in discesa dal ghiacciaio, risalgono il pendio dove mi trovo sferrandomi schiaffi violentissimi, a velocità ben superiori ai 100 chilometri orari. Non posso andare oltre. Faccio molta fatica a restare in piedi, rischiando di essere sbalzato giù dal dirupo, e anche un gesto semplice come tenere la macchina fotografica in mano diventa improvvisamente difficile. Per la prima volta, da quando sono sull’isola, la Natura selvaggia che governa questi territori mi dà prova della sua vera forza, impedendomi in ogni modo di osare oltre. Le risposte che cercavo le ho trovate. La corazza razionale che tiene a bada le mille emozioni di questi istanti prende le sagge decisioni: è il momento di tornare indietro.
Col Sole ancora abbastanza alto, sebbene la giornata si stia avviando verso il suo epilogo, mi incammino in discesa, spinto costantemente da quelle raffiche di vento violente e intermittenti. Il meteo, inoltre, sta cambiando. Imponenti nubi lenticolari si sono formate nei versanti sottovento delle cime, a prova del fatto che le correnti discendenti dalle montagne sono molto sostenute. Ma ciò che mi preoccupa è il muro di nubi che nel corso della giornata ha coperto totalmente l’intera visuale del gigante bianco, a nord. Avanza dal primo pomeriggio, e oltre a cominciare a ostacolare il passaggio della luce del Sole, sta ricoprendo le cime più alte dell’isola, quelle del vulcano Öræfajökull, che emergono scure e a fatica dal ghiaccio, proprio di fronte a me.
Dovrei sbrigarmi, ma il sollievo di una giornata vissuta nuovamente a cavallo dei miei sogni mi pervade. Quel che mi resta da vivere, ora, fino a domani, è solo una rendita di nuove emozioni, che si aggiungono a quel cofanetto infinito che le custodisce tutte quante. La mia avventura odierna è quasi giunta al termine. Il meteo non è neppure rilevante; sono i titoli di coda di una giornata meravigliosamente desiderata. Scendendo nel silenzio e nella solitudine di questi grandi spazi selvaggi rivivo, fotogramma dopo fotogramma, ogni istante di un altro sogno vissuto, e in continuo divenire. Ciò che bramavo sin dal primo passo su quest’isola si sta verificando ad ogni nuovo balzo compiuto. I grandi signori di ghiaccio, gli antichi saggi dell’isola, si sono svelati, mostrandomi la loro immensa energia ancestrale. Al loro cospetto ho inserito ancora un tassello nel mosaico della comprensione delle dinamiche della Natura. Ho poggiato un nuovo mattoncino nella costruzione della mia consapevolezza della dimensione di essere umano immerso all’interno di un universo di meravigliosa incertezza, tutta da scoprire. Mentre sulle montagne alle mie spalle comincia a nevicare, il gigante bianco mi saluta, svanendo nella nebbia. A quote più basse la neve si tramuta in pioggia. Gli ultimi deboli raggi di Sole disegnano un arcobaleno fra i ghiacciai e le distese colorate di lupini. Sorrido, mi volto, chiudo gli occhi. Sono felice.
Il meteo cambia rapidamente nel sud dell’Islanda. Un tappeto di lupini Nootka è fermato dai più ripidi versanti montuosi che celano, pochi chilometri più a nord est, la cima più alta dell’isola, Hvannadalshnjúkur. Islanda. Marco Franchi, 2019.